Per il rilascio immediato dell’avvocato curdo Selahattin Demirtaş
Giovedì 21 gennaio, nelle ore in cui il Ministro degli esteri turco si trovava a Bruxelles per rilanciare le relazioni con l’Unione europea dopo una lunga fase di stallo, il Parlamento europeo, in piena conformità con la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’uomo (CEDU), ha approvato a larghissima maggioranza la risoluzione d’urgenza che chiede il rilascio immediato e incondizionato del politico curdo imprigionato Selahattin Demirtaş, ex leader del Partito Democratico dei Popoli (HDP).
Demirtaş è stato arrestato insieme ad altri deputati dell’HDP il 4 novembre 2016 con l’accusa di terrorismo per presunti legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), un’organizzazione militante in conflitto con lo Stato turco dal 1984. La CEDU ha richiesto la sua scarcerazione per ben due volte: dapprima nel 2018, e in seguito lo scorso 22 dicembre, quando la Grande Camera della CEDU ha ritenuto che la detenzione di Demirtaş si basa su accuse infondate, mina gravemente il concetto stesso di società democratica, sottolineando che per quattro anni di detenzione i suoi diritti fondamentali sono stati violati.
Ma chi è Demirtaş e perché è tanto temuto dal sultano di Ankara?
Demirtaş è un avvocato e difensore di diritti umani, impegnato in politica dal 2007 in diversi partiti filo-curdi. Quando nel 2012 nacque l’HDP con l’intento di rappresentare sia la popolazione curda del Paese (circa 20 milioni), sia la sinistra turca delusa dai partiti tradizionali, Demirtaş divenne il co-presidente del partito, rispettando la regola della parità di genere (ci sono due co-leader, un uomo e una donna). Leader carismatico e molto apprezzato tra il popolo, negli anni è riuscito, da un lato, a portare la questione curda al centro del dibattito politico civile proponendo un approccio pacifico e di dialogo (è stato anche uno dei protagonisti dei colloqui di pace tra il governo turco e il PKK), dall’altro è riuscito, con un approccio innovativo e pluralista, ad ampliare il consenso del suo partito oltre il confine regionale a maggioranza curda, costituendo un’alternativa anche per gli “emarginati” della società turca ( minoranze etniche, religiose, sociali). Da oltre quattro anni Selahattin Demirtaş è rinchiuso nel carcere di alta sicurezza di Edirne, al confine turco con la Bulgaria, a 1600 km da casa sua e dalla sua famiglia a Diyarbakir, nel Sud-est; anche questa, indubbiamente, una scelta politica.
Sin dalla sua nascita, l’HDP, e la figura di Demirtaş in particolare, hanno in più occasioni messo a dura prova la sopravvivenza politica di Erdoğan. La prima volta fu nel 2015, quando l’HDP, candidatosi come partito unico e compatto alle elezioni legislative, riuscì per la prima volta a entrare al parlamento turco con un risultato storico che andava ben oltre l’altissima soglia di sbarramento del 10%. Diventando la terza forza politica del Paese, fece in tal modo perdere la maggioranza parlamentare assoluta di Erdoğan dopo lunghi anni di saldo controllo. Più di recente, invece, durante le elezioni amministrative del 2019, il partito AKP di Erdoğan perse le roccaforti di città come Istanbul e Ankara contro i candidati repubblicani del CHP (partito socialdemocratico erede del padre fondatore Kemal Atatürk). La vittoria fu resa possibile dalla strategia adottata dall’HDP che, pur avendo una base forte, decise di non presentare candidati propri appoggiando i candidati del CHP. A fronte di ciò, non risulta dunque difficile capire il perché Demirtaş sia diventato il più temuto tra gli oppositori politici di Erdoğan.
La risoluzione adottata al Parlamento europeo chiede anche la scarcerazione dei numerosi membri dell’HDP arrestati sulla base di accuse false e infondate. Tra questi, i sindaci democraticamente eletti di molte città del Sud-est a maggioranza curda. Nelle elezioni locali del 2019 l’HDP ha vinto in 65 municipalità del Paese; solo sei sindaci sono ancora in carica, mentre gli altri sono stati rimossi o incarcerati e sostituiti con funzionari statali nominati dal governo (kayyum in turco). Da qualche anno a questa parte, l’HDP è sottoposto a una durissima repressione da parte del governo: la sua classe dirigente è stata fortemente indebolita e, ad oggi, è in corso un dibattito pubblico sull’eventuale chiusura del partito.
Cosa aspettarci ora?
Prima ancora di essere un politico, Demirtaş è un avvocato e difensore dei diritti umani: tutte categorie scomode per il regime turco. In Turchia, la negazione e la violazione dello stato di diritto e dei diritti umani, sistematica ormai da tempo, negli anni ha assunto forme diverse. Mentre negli anni ’80 e ’90 i deputati curdi venivano processati solo per aver parlato curdo in pubblico o venivano fatti scomparire all’improvviso (i “desaparecidos curdi”), adesso assistiamo al tentativo di censura dell’espressione democratica di un intero popolo. Non è più una novità che il Paese si sia trasformato in un carcere a cielo aperto: giornalisti, difensori dei diritti umani, accademici, avvocati e membri della comunità LGBTI sono costantemente sotto attacco da parte dell’attuale regime. L’elemento che accomuna tutte le accuse a loro mosse è una sola: “terrorismo”, la cui definizione non conosce più un limite ed è così ampia che chiunque in Turchia può essere arrestato.
Le sentenze della CEDU sono giuridicamente vincolanti per la Turchia. Erdoğan le ignora ma, se intende davvero riallacciare le relazioni con l’UE – anche e soprattutto per via dello stato disastroso in cui riversa attualmente l’economia turca – deve cominciare proprio dall’applicazione delle decisioni della CEDU e rilasciare immediatamente Demirtaş. Non sappiamo ancora cosa ci aspetta nel breve periodo, ma una cosa è certa: la scarcerazione di Demirtaş, e degli altri oppositori in carcere ingiustamente, sarebbe uno spiraglio di luce nel buio più totale che avvolge il Paese.