LA VERGOGNA ANNUNCIATA DELL’ANNESSIONE
La formazione di un governo in Israele dopo 18 mesi di stallo e diverse tornate elettorali non è una buona notizia. Benjamin Netanyahu è riuscito a rimanere al potere forgiando un’alleanza d’interesse con l’avversario politico Benny Gantz, leader del partito Blu e Bianco. Sollevando molte perplessità nella famiglia socialista, anche il partito laburista israeliano ha infine deciso di sostenere la nuova coalizione.
Netanyahu riesce nel doppio scopo di rimanere al riparo dalle indagini avviate nei suoi confronti per corruzione, frode e abuso di potere e al contempo realizzare il suo inaccettabile progetto di annessione unilaterale dei territori palestinesi in Cisgiordania che -è sempre giusto ricordarlo- è illegale secondo il diritto internazionale.
Le promesse ai gruppi della destra reazionaria israeliana confermano la natura politica del leader israeliano che, in sfregio al diritto e ai diritti, entro la fine di quest’estate, intende annettere l’intera valle del Giordano (il 30% della Cisgiordania) e il territorio di 130 colonie israeliane. Il nuovo governo israeliano può contare sulla complicità dell’amministrazione Trump che ha di fatto auspicato ulteriori annessioni da parte di Israele con la proposta di un nuovo “accordo di pace”, di cui ho parlato nel dettaglio qui.
Se Netanyahu riuscisse nella sua impresa, le colonie illegali diventerebbero ufficialmente parte del territorio di Israele senza però riconoscere la cittadinanza ai palestinesi che vivono in queste terre privandoli di qualsivoglia diritto e tutela e incrementando così il rischio di deportazione.
L’obiettivo di Netanyahu è perfino peggiore del piano immaginato dall’amministrazione USA. Infatti, mentre nel disegno di Trump permane una sottilissima possibilità per la soluzione a due stati, seppur in una versione penalizzante per i palestinesi, quello del premier israeliano esclude qualsiasi possibilità di mediazione con la controparte palestinese. Una volta approvato dal governo, il piano sarà sottoposto allo scrutinio del parlamento con tempistiche accelerate.
Il Primo ministro israeliano ha fretta: il risultato delle presidenziali statunitensi a novembre potrebbe rovesciare gli equilibri. Il governo di Israele può ora contare sul sostegno scontato di Washington e mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto. Se l’inquilino alla Casa Bianca dovesse cambiare anche la politica mediorientale potrebbe mutare in maniera più o meno radicale.
Gli annunci del Presidente israeliano e di Trump hanno provocato reazioni forti e forse inaspettate. Oltre alle condanne del Segretario Generale dell’ONU e della Lega Araba, il re giordano Abdullah ha dichiarato in un’intervista di Der Spiegel che un’eventuale annessione dei territori palestinesi rischierebbe di mettere in discussione persino il trattato di pace tra Giordania e Israele, firmato nella valle Arava nell’ottobre 1994 dal Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il corrispettivo giordano Abdelsalam al-Maja, dopo intensi negoziati mediati dalla presidenza Clinton.
Anche il gruppo dei Socialisti & Democratici al Parlamento europeo, di cui faccio parte, e l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue Josep Borrell hanno fatto sentire la loro voce esprimendo nettamente la loro contrarietà a qualsiasi tipo di annessione unilaterale in sfregio alle risoluzioni ONU e al processo di pace. A Bruxelles si sono riuniti i Ministri degli esteri degli Stati membri dell’Ue: sul tavolo tante opzioni, incluse eventuali sanzioni contro lo Stato di Israele.
Lo scenario che prevede l’imposizione delle sanzioni rimane molto remoto. Per imporle occorre infatti che gli Stati membri le approvino all’unanimità, circostanza poco realistica considerando la contrarietà di Ungheria e Austria. Tuttavia, esse non sono l’unica opzione a disposizione dell’Ue.
Le relazioni fra Bruxelles e Tel Aviv sono regolate dall’Accordo di Associazione che condiziona la cooperazione e il libero commercio al rispetto di alcuni valori chiave. In particolare, l’articolo 2 del trattato prevede che “le relazioni tra le parti, così come tutte le disposizioni dell’accordo, si fondano sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, cui si ispira la loro politica interna e internazionale e che costituisce elemento essenziale dell’accordo”. È interessante osservare che per la sospensione anche parziale dell’accordo non è necessario un voto all’unanimità ma un più semplice voto a maggioranza qualificata degli Stati membri.