La contesa del Mare nostrum in difesa del diritto internazionale

La pausa estiva è giunta al termine e la necessità di affrontare al meglio le sfide che ci attendono ha contraddistinto le scorse giornate di lavoro in Parlamento europeo.

I mesi precedenti, caratterizzati da ampie negoziazioni culminate nell’approvazione del Next Generation EU (meglio conosciuto in Italia come Recovery Fund), ci hanno ampiamente dimostrato l’esistenza tangibile di un’Europa più solidale che affronta con coraggio le sue sfide, conscia della forza della sua Unione.

Nelle settimane passate vi sono state numerose riunioni della Commissione Affari esteri nel corso delle quali abbiamo affrontato anche il delicato tema della situazione nel Mediteranno orientale e in Turchia.

Siamo tutti consci delle continue violazioni dei diritti umani da parte del governo di Erdoğan. Ultima di una lunghissima serie è stata la tragica morte dell’avvocata curda per i diritti umani Ebru Timtik, lasciata morire di fame dopo essere stata ingiustamente condannata senza possibilità di difendersi a 13 anni di carcere. Ebru Timtik aveva una sola colpa: aver lottato per la difesa delle persone che, prima di lei, erano state incarcerate dal regime per aver criticato le politiche repressive di Erdoğan e aver strenuamente difeso i diritti civili e umani nel Paese.

Alla drammatica situazione interna, si sono aggiunte le mire egemoniche turche nella regione. Sono infatti mesi che Ankara si sta muovendo a 360° sullo scacchiere internazionale. .

Cosa sta succedendo nel Mediterraneo orientale?

Nell’ultimo decennio, il Mediterraneo orientale è stato oggetto di desiderio da parte dei Paesi dell’aerea. Nel 2009 furono infatti scoperti dei giacimenti di idrocarburi tra Cipro e Israele, mentre nel 2015 altri giacimenti furono individuati vicino alle coste egiziane. Da allora, l’Unione europea ha collaborato all’ambiziosa progettazione del gasdotto EastMed, che dovrebbe collegare i Paesi del Mediterraneo orientale (Cipro, Israele e Egitto) e permettere al gas di arrivare in tutta l’Europa continentale passando attraverso la Grecia e l’Italia. La costruzione di tale gasdotto sarebbe molto importante per l’UE, perché permetterebbe ai nostri Stati membri di aumentare la propria sicurezza energetica e dipendere in misura minore dagli approvvigionamenti russi.

Esclusa dal progetto, a fine 2019 la Turchia ha però deciso di stipulare un accordo con Serraj per la creazione di una zona economica esclusiva (ZEE) con la Libia, che permetterebbe al governo di Erdoğan di esplorare zone marittime più vaste e, in cambio, inviare aiuti e sostegno militare alla Libia qualora necessario. La Grecia si è opposta a tale accordo sostenendo fosse contrario al diritto internazionale e ha reagito stipulando anch’essa una ZEE con l’Egitto, la quale si sovrappone per alcune parti a quella voluta da Erdoğan.

Le tensioni nel Bacino del Levante non sono nuove. Già lo scorso anno l’UE impose delle sanzioni economiche contro la Turchia, colpevole di non aver rispettato il diritto internazionale e aver cominciato a trivellare i giacimenti di gas naturale nelle acque di Cipro.

Tuttavia, ciò non ha fermato Erdoğan che nelle settimane scorse ha dato nuovo vigore alle esplorazioni turche a largo della Grecia, causando una crisi internazionale mediata in estremis dalla Germania.

Non vi è dubbio quindi che anche un’ipotetica collaborazione con la Turchia sul tema energetico sia oggi alquanto improbabile, poiché il regime di Erdoğan ha più volte dimostrato di non essere assolutamente affidabile e, ancor peggio, di esser disposto a violare il diritto internazionale qualora i propri interessi geopolitici lo richiedano.

Restare a guardare non è un’opzione: i nostri concittadini europei greci e ciprioti ci avvertono che la politica dell’appeasement non funziona con Erdogan. Se l’Europa non sarà ferma nel rivendicare le sue posizioni, potremmo presto trovarci sull’orlo di un nuovo conflitto greco-turco.

Perché imporre sanzioni mirate su chi è responsabile di violazioni del diritto internazionale in Bielorussia e Venezuela, e non far lo stesso con la Turchia?

È arrivata l’ora di ritrovare il coraggio che abbiamo avuto con la creazione del Next Generation UE, e di intraprendere azioni concrete anche in materia di politica estera. I deboli moniti e le rituali voci di condanna, o addirittura il silenzio assordante non sono e non saranno mai la soluzione. La triste verità è che l’Unione, abdicando dai nostri valori e dalla nostra storia, ha per anni finanziato Erdoğan e il suo regime per fermare l’ondata migratoria talvolta più percepita che reale. Così facendo abbiamo lasciato le chiavi della nostra Unione al Presidente turco che continua a usarle per minacciarci e tenere in scacco Bruxelles sulle questioni internazionali.

L’UE deve cambiare rotta, e auspico che l’Italia si ponga in prima linea per sollecitare l’adozione di sanzioni mirate ed efficaci che siano capaci di fermare le continue violazioni delle libertà democratiche fondamentali e del diritto internazionale da parte del regime turco.

Il Ministro degli esteri tedesco Heiko Maas ha ragione: sul Mediterraneo orientale si sta giocando col fuoco. Agire velocemente è perciò imperativo, ma non è con i soli moniti che le mire egemoniche di Ankara verranno frenate.