Il genocidio silenzioso degli uiguri
Lunedì 22 marzo, l’Unione europea ha imposto delle sanzioni a quattro funzionari cinesi per le violazioni dei diritti umani ai danni della minoranza musulmana degli uiguri nella regione nord-occidentale dello Xinjiang. È la prima volta dagli episodi di Piazza Tienanmen nel 1989 che l’UE sanziona esponenti del regime cinese. La risposta della Cina non si è fatta attendere, che subito poche ore dopo ha pubblicato un comunicato in cui dichiarava di sanzionare a sua volta quattro enti europei (tra cui la Sottocommissione dei diritti umani al Parlamento europeo DROI) e dieci persone, tra cui cinque parlamentari europei.
Il genocidio silenzioso degli uiguri
Gli uiguri sono una minoranza musulmana turcofona residente nella regione dello Xinjiang; ad oggi contano circa 12 milioni di popolazione e costituiscono uno dei 56 gruppi etnici riconosciuti dal Partito comunista cinese. Lo Xinjiang ha lo status di regione autonoma e, negli anni, ha assunto un’importanza sempre più strategica per via del suo posizionamento geografico: confina, di fatti, con Mongolia, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, India.
In seguito al crollo dell’Unione Sovietica, la nascita degli Stati indipendenti di Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan riaccese i sentimenti secessionisti della minoranza uigura nello Xinjiang. Sin dalla seconda metà degli anni Novanta, il governo cinese ha attuato una serie di politiche con l’obiettivo di riportare stabilità e sicurezza nella regione. Strumentalizzando le spinte secessioniste locali, e nel contesto di una campagna di lotta globale al terrorismo dopo l’11 settembre 2001, a partire dal 2014 il governo cinese ha lanciato una vasta operazione di repressione che ha investito tutta la popolazione musulmana locale. Secondo le stime, oltre un milione di persone sono o sono state detenute nei cosiddetti “centri di rieducazione”, dei veri e propri campi di internamento (ad oggi oltre 380) dove sono soggetti a lavori forzati, sorveglianza di massa, lavaggi del cervello, sterilizzazioni e aborti forzati.
Negli ultimi anni, diverse inchieste giornalistiche, testimonianze e rapporti di associazioni per i diritti umani sono stati pubblicati circa le detenzioni illegali di massa, ma la Cina ha sempre negato ogni tipo di accusa.
La linea rossa dell’UE: i diritti umani
La comunità internazionale rimane profondamente spaccata sulla questione uigura. Già nel luglio 2019, 22 Paesi tra cui Francia, Germania, Australia, Canada avevano inviato una lettera al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (UNHRC) condannando il trattamento delle minoranze etniche nello Xinjiang; pochi giorni dopo, 37 Paesi con posizioni politiche e forti interessi economici in comune con Pechino avevano replicato con una lettera in suo sostegno – tra questi, ricordiamo l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Russia, la Corea del Nord, il Pakistan, l’Iran, la Siria.
La Cina è stata a lungo considerata come un partner commerciale benigno (è il secondo partner commerciale dell’UE dopo gli Stati Uniti), e queste sanzioni arrivano dopo neanche tre mesi dalla firma dell’accordo sugli investimenti UE-Cina lo scorso dicembre. È però giunta l’ora di dire chiaro e forte che non ci stiamo a fare affari con chi non rispetta i diritti e le libertà fondamentali.
Il Parlamento europeo si è impegnato per mantenere alta l’attenzione internazionale su quanto stava accadendo nello Xinjiang, e nel 2019 ha assegnato il premio Sakharov a Ilham Tohti, professore di economia ed attivista di etnia uigura. Queste sanzioni sono dunque un primo passo, ma evidentemente non basta. Bisogna seguire l’esempio del parlamento canadese e di quello olandese, riconoscendo formalmente il genocidio ai danni degli uiguri. Da anni chiediamo anche l’istituzione di un sistema di controllo sulle importazioni che imponga maggiore responsabilità alle multinazionali che importano prodotti dalla Cina. Da oggi lo chiederemo con ancora più vigore, perché i nostri consumi non possono contribuire allo sterminio culturale di una minoranza.