Il dramma dell’Afghanistan e il coraggio (invisibile) dell’UE

Il disastro di Doha e le sue conseguenze

Mentre gran parte del mondo si apprestava ad affrontare una pandemia con conseguenze devastanti, nel febbraio 2020 l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump firmava a Doha un accordo di pace coi talebani che prevedeva il completo ritiro di tutte le truppe statunitensi e della NATO dal territorio afgano senza però esigere garanzie riguardo il dialogo intra-afgano previsto dagli accordi stessi.

L’obiettivo primario di Donald Trump non fu di certo coinvolgere gli alleati europei o il governo afgano del Presidente Ashraf Ghani nel processo di pace né tantomeno garantire un futuro e una pace duratura al popolo afgano, quanto capitalizzare un apparente accordo storico e sfruttarlo a livello domestico durante la campagna presidenziale.

Nonostante le aspettative europee, il nuovo Presidente statunitense Joe Biden ha continuato a gestire la questione afgana senza consultare i partner europei, mostrando perciò nessuna volontà di discontinuità rispetto al suo predecessore. Tale indifferenza nei confronti degli alleati si è ovviamente rivelata disastrosa. I talebani hanno infatti sfruttato la debolezza diplomatica ed operativa degli USA per avviare una campagna militare conclusasi in meno di due settimane con la conquista dell’intero Paese (fatta eccezione per il territorio del Panjshir).

L’incapacità dell’intelligence USA di prevedere tale mossa ha giustamente attirato forti critiche nei confronti dell’amministrazione Biden.

L’incertezza del presente

In queste ultime settimane di agosto, i Paesi europei hanno lavorato strenuamente per riportare i propri connazionali e collaboratori afgani al sicuro fuori dal Paese entro la fine di agosto. Seppure contrari a protrarre le tempistiche del ponte aereo e del ritiro del personale straniero, i talebani hanno sostenuto che garantiranno la ripartenza dei voli civili, e che gli afgani in possesso di visti potranno recarsi altrove senza alcun problema.

Eppure, visti i precedenti, fidarsi dei talebani risulta ad oggi molto difficile. Tuttavia, l’emergenza umanitaria ma anche la minaccia dell’ISKP (gruppo terroristico regionale affiliato al sedicente Stato islamico) rendono necessario interloquire coi talebani, principalmente per l’attivazione dei corridoi umanitari. Tale dialogo non corrisponde affatto a un riconoscimento internazionale dei talebani o a un loro sostegno finanziario. Difatti, gli aiuti allo sviluppo destinati all’Afghanistan sono già stati bloccati e verranno reimmessi nelle casse di Kabul soltanto nel rispetto della loro condizionalità, ossia il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale da parte del futuro governo.

Tuttavia, gli aiuti umanitari non possono assolutamente cessare di confluire in un Paese già martoriato economicamente e stremato dalla siccità e dalla pandemia Covid-19. Tali aiuti dovranno necessariamente porre particolare attenzione alle categorie più a rischio – donne e bambini in primis, che secondo l’UNHCR rappresentano la stragrande maggioranza del mezzo milione di persone sfollate internamente in queste settimane – cifra che si aggiunge ai già 2,9 milioni di persone sfollate alla fine del 2020.

La sempre spinosa questione migratoria

Nelle ultime settimane, tantissime persone stanno tentando di scappare dalla morsa estremista e retrograda dei talebani e dell’ISKP. Già nei giorni scorsi, mentre gli occhi erano puntati tutti sull’aeroporto di Kabul, migliaia di persone si sono ammassate anche nella città di Spin Boldak, città al confine con il Pakistan, nella speranza di poter lasciare il Paese.

Ne consegue che il dibattito coi Paesi della regione sarà pertanto cruciale nei prossimi mesi, poiché l’esodo afgano sarà principalmente regionale. Sarà fondamentale lavorare strenuamente in seno ai fora internazionali, ONU in primis, per far sì che i profughi afgani vengano adeguatamente aiutati. Come illustrato dalla Commissaria europea per gli Affari Interni Ylva Johansson, sarà necessario intensificare la cooperazione coi Paesi limitrofi quali Pakistan, Iran e Tagikistan.

In secondo luogo, l’Ue dovrà avere il coraggio di assumersi le proprie responsabilità e accogliere i profughi afgani, permettendo loro di costruirsi una vita dignitosa all’interno dei propri confini. Come ha ricordato il Presidente Sergio Mattarella dal palco di Ventotene, abbandonare gli afgani al proprio destino non sarebbe assolutamente “all’altezza dei valori dell’Unione”.

Un primo significativo segnale dovrebbe consistere nel blocco di tutti i rimpatri e nella regolarizzazione delle persone afgane già presenti in Europa. Benché l’Italia sia stato uno dei Paesi Ue col più basso numero di rimpatri, i numeri totali nell’Ue sono tutt’altro che positivi. Su un totale di 600.000 richieste d’asilo nel periodo 2008-2020, ben 290.000 persone afgane si sono visti opporre un diniego alla loro richiesta d’asilo, e di queste 70.000 sono già state rimpatriate. Ad oggi, quindi, 220.000 persone si trovano sul territorio europeo senza alcuna protezione.

Oltre a coloro già presenti in Europa, sarà necessario trovare soluzioni eque per accogliere cittadine afgane e cittadini afgani che arriveranno nell’Ue nei prossimi mesi.

Come ricordato anche dall’Alto Rappresentante Josep Borrell, l’Unione ha nella sua “cassetta degli attrezzi” gli strumenti adatti. Il più importante è la direttiva del 2001/55/CE sulla protezione temporanea, ad oggi mai utilizzata. La direttiva in questione può essere utilizzata “in caso di afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi terzi che non possono ritornare nel paese d’origine”, e ha oltretutto l’obiettivo “di promuovere l’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi”. Tale strumento permette di attivare una procedura straordinaria al fine di garantire la protezione dei profughi qualora il sistema d’asilo vigente sia sovraccaricato e rischi di non funzionare correttamente. La direttiva può essere attivata con la sola maggioranza qualificata, e permetterebbe pertanto di evitare il veto di Paesi da sempre ostili alla gestione della questione migratoria.

La sua attivazione necessita quindi una volontà politica degli Stati membri di assumersi le proprie responsabilità in materia di immigrazione e asilo, avviando un equo processo di redistribuzione dei profughi. Di certo, la costruzione di muri alla frontiera da parte di alcuni Stati membri, nonché la dichiarazione congiunta dei Ministri degli Affari interni UE in seguito alla riunione del 31 agosto non procedono assolutamente nella direzione auspicata. L’ossessione per la protezione delle frontiere esterne e il ripetuto utilizzo del termine “migrazione illegale”, già di per sé disumanizzante ma ancor di più vergognoso poiché usato in riferimento a chi scappa da guerra e violenza, dimostrano ancora una volta l’incapacità degli Stati membri di rispettare appieno il diritto internazionale. Un drastico cambio di rotta è fondamentale: la priorità europea non deve essere difendere le proprie frontiere, ma difendere vite umane.

Una strategia comune in difesa dei valori universali

Il crescente disimpegno statunitense e l’incapacità europea di offrire un contributo significativo nei conflitti internazionali, ci pongono davanti l’urgenza di ripensare al ruolo dell’Ue a livello globale tramite la creazione di una solida politica estera comune veramente capace di difendere i valori universali anche al di fuori dei nostri confini.

Abbandonare l’Afghanistan e l’intera regione a sé stessi significherebbe assistere a un totale deterioramento della già precaria situazione dei diritti umani e a un moltiplicarsi di modelli autoritari in tutta la regione. Mosca e Pechino, ad oggi apparentemente attendiste, hanno già instaurato contatti coi leader talebani ed entrambe mirano ad accrescere la propria influenza nel Paese. Lasciare l’Afghanistan a tali Paesi rischia di mettere in pericolo i valori alla base del nostro progetto comunitario.

Ciò che in gioco è quindi, ancora una volta, la difesa dei diritti umani e del diritto internazionale. Se vi è qualcuno che può e deve agire per sostenere il popolo afgano ed evitare l’estendersi di una tragedia umanitaria che già oggi ha dimensione alquanto preoccupanti, è l’Unione europea. L’Italia ha già dimostrato di voler assumersi un ruolo rilevante nella questione afgana, e si è impegnata a coinvolgere il maggior numero di Paesi terzi e partner internazionali durante la sua presidenza del G20. Tale impegno non può che essere apprezzato, ma ovviamente serve elaborare una strategia europea di più ampio respiro. Solo col coraggio di agire uniti e con prontezza riusciremo a non venir meno ai nostri obblighi internazionali e a mostrarci, agli occhi del mondo, primi difensori del Diritto e dei diritti.