I fondi dell’Unione europea e lo Stato di diritto
L’Unione europea e lo Stato di diritto
Il progetto che sta alla base dell’Unione Europea è la costruzione di una casa comune pensata per quelle nazioni un tempo dilaniate dalle guerre dei regimi totalitari europei. Si è partiti con accordi economici ma, fin da subito, l’Unione ha affondato le sue radici valoriali nella promozione della pace, della prosperità e della democrazia. Negli anni Cinquanta, lo scopo di lungo periodo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) non si limitava alla creazione di un mercato comune. La condivisione di materie prime fondamentali per l’industria bellica serviva solo come primo mattone per la creazione di quell’inter-dipendenza economica che negli anni successivi ha unito l’Europa rendendo impossibile un conflitto interno.
Questa è la strada percorsa dalle madri e dai padri fondatori dell’Unione che hanno voluto scrivere questi valori nel Trattato sull’Unione Europea, l’atto costitutivo che ancora oggi regola ogni azione dell’Ue. L’Articolo 2 del Trattato indica i valori e i principi su cui poi si sviluppa l’intero impianto legislativo europeo.
Art. 2 del Trattato sull’Unione Europea
L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
I testi costituzionali rappresentano sicuramente un’ideale ma devono essere anche concreti e realizzabili. I padri fondatori dell’Unione non si sono limitati a un’enunciazione astratta di questi principi ma hanno voluto inserire un meccanismo in grado di sanzionare le eventuali violazioni dello Stato di diritto, che si sostanziano nell’infrazione delle norme legislative e costituzionali da parte di un governo. Lo strumento previsto dal’Art. 7 del Trattato prevede che – in presenza di violazioni che, ad esempio, limitano l’indipendenza e l’autonomia della magistratura o discriminano le minoranze – il Consiglio e il Parlamento possono votare la sospensione dei diritti derivanti dall’appartenenza all’Unione, compreso il diritto di voto nelle decisioni prese dal Consiglio europeo, organo che riunisce i governi dei diversi Stati membri. La procedura prevista dall’Articolo 7 può essere attivata da un terzo degli Stati membri, dalla Commissione o dal Parlamento europeo.
Già nel settembre 2018, il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione nella quale chiedeva al Consiglio europeo di agire nei confronti dell’Ungheria, attivando per la prima volta la procedura sanzionatoria prevista dall’Articolo 7. Il governo ungherese era accusato di violazioni sistematiche dello Stato di diritto quali la detenzione per i richiedenti asilo, il divieto di sciopero, le limitazioni alla libertà di stampa e la riduzione delle competenze della Corte costituzionale. Purtroppo, nella sua attuale formulazione, la procedura sanzionatoria contiene una falla. Il Consiglio infatti per prendere una decisione in merito alle violazioni dello Stato di diritto e avviare la procedura o sostenere la richiesta del Parlamento europeo necessita della decisione unanime dei suoi membri (a esclusione ovviamente del governo interessato). Nell’attuale conformazione politica europea, il governo di Orban può contare sul sostegno e la complicità di regimi con aspirazioni simili, a partire dalla Polonia che ha puntualmente ostacolato l’intera procedura.
La proposta per un nuovo meccanismo sullo Stato di diritto
A causa dell’inefficacia della procedura prevista dall’Art. 7 del Trattato, la Commissione europea ha proposto un nuovo meccanismo che condiziona l’erogazione dei fondi previsti dal bilancio comunitario al rispetto dello Stato di diritto. Il testo proposto dalla Commissione prevede la sospensione dei pagamenti nel caso un governo nazionale minacci lo Stato di diritto, per esempio tramite atti legislativi contro l’indipendenza del sistema giudiziario o contro il trattamento equo e non discriminatorio dei cittadini. Seconda la proposta, il Consiglio europeo, ove siedono i governi nazionali, potrebbe porre il veto e bloccare la procedura d’infrazione tramite un voto a maggioranza qualificata che eliminerebbe, quindi, la possibilità per Polonia e Ungheria di adoperare i tatticismi che hanno affossato i precedenti tentativi sanzionatori. Al contrario della procedura attualmente prevista, la nuova proposta non prevede infatti che un singolo governo nazionale possa porre il veto e bloccare il processo.
Il testo è passato in mano ai co-legislatori, al Parlamento europeo e al Consiglio. Il Parlamento ha dato subito seguito votando a maggioranza un testo migliorativo che prevede un maggior coinvolgimento del Parlamento e più chiarezza sulla natura delle violazioni. Purtroppo, i veti incrociati del Consiglio europeo hanno di fatto bloccato la proposta che è in stallo dal 2018 nonostante i moniti lanciati sia dal Parlamento che dalla Commissione.
Il Recovery Fund e la condizionalità
A luglio, il Consiglio ha preso una decisione epocale varando il Recovery Fund (Next Generation EU) che prevede la parziale mutualizzazione del debito e un pacchetto di finanziamenti pari a 750 miliardi di euro. Purtroppo, per vincere l’opposizione di alcuni Stati membri, il Consiglio ha legato l’approvazione di questo nuovo pacchetto non solo a tagli al quadro finanziario pluriennale dell’Ue (che finanzia le politiche europee come quelle in sostegno all’agricoltura o allo sviluppo) ma anche a un indebolimento del meccanismo sullo Stato di diritto. La reazione del Parlamento non si è fatta attendere. In una risoluzione votata a larga maggioranza a luglio, l’istituzione che rappresenta i cittadini Ue ha annunciato di ritirarsi dal tavolo negoziale se le cifre inizialmente pattuite per le politiche europee non fossero mantenute e nel caso non venisse approvato in via definitiva il nuovo meccanismo sanzionatorio. La scorsa settimana il Parlamento è tornato a farsi sentire appellandosi al Consiglio affinché approvi finalmente il meccanismo ideato dalla Commissione e avanzando una serie di nuove proposte fra cui l’istituzione di un “Ciclo di monitoraggio annuale dei valori dell’Unione”, basato su raccomandazioni specifiche per paese, con scadenze e obiettivi legati a misure concrete. Tramite questo strumento, la Commissione europea sarebbe in grado di raccomandare ai singoli governi Ue ove intervenire per garantire il rispetto dello Stato di diritto. Una volta appurate le violazioni e il mancato rispetto delle raccomandazioni da parte dei governi che beneficiano da questi fondi, la Commissione sarebbe titolata a procedere con le sanzioni e con il congelamento dei pagamenti.
I negoziati sul Quadro Finanziario Pluriennale (QFP)
Il Quadro Finanziario Pluriennale (QFP), della durata di sette anni, definisce gli obiettivi di lungo periodo delle politiche europee stabilendo le allocazioni di bilancio e i limiti dei bilanci annuali dell’Unione. In altre parole il QFP stabilisce come e dove vadano spesi i fondi comunitari. La decisione sulle diverse allocazioni di spesa spettano al Consiglio ma il pacchetto finale non può essere approvato senza il placet del Parlamento europeo che, in nome dei cittadini che rappresenta, vigila sulla spesa dei fondi dei contribuenti.
I negoziati fra Parlamento e Consiglio per la definizione del pacchetto finale sono al momento sospesi per decisione del Parlamento le cui richieste su condizionalità e allocazioni sono cadute nel vuoto. L’impasse che si è creata è pericolosa perché il Consiglio ha vincolato l’emissione dei titoli che finanzieranno il Recovery Fund ai tagli al Quadro Finanziario Pluriennale e all’insabbiamento del meccanismo sullo Stato di diritto. L’auspicio è che il Parlamento, forte del suo potere di veto sul bilancio, non faccia passi indietro anche in considerazione del fatto che non esiste alcun legame formale o legale fra il Recovery Fund e il bilancio europeo. Essi corrono infatti su binari separati. Il QFP finanzia le politiche promosse dall’Ue mentre i fondi del Recovery Fund sono gestiti direttamente dai governi nazionali.
L’appartenenza a una comunità non può prescindere dalla condivisione e dal rispetto dei valori che la fondano e non può essere limitata ai vantaggi economici che da essa derivano. Vale per tutti ma soprattutto per Polonia e Ungheria, per cui i fondi europei valgono il 3% del PIL nazionale, e che grazie ai fondi Ue sono riuscite a uscire dalla palude della stagnazione economica.